Grido d’allarme della storica istituzione intitolata a Antonicelli: “La politica salva i grandi eventi ma da soli si muore”
Intervista del 19 marzo 2013 di Massimo Novelli: Ragona-Repubblica
Lettera di Gianfranco, Ragona , Presidente dell’Unione Culturale “Franco Antonicelli” al giornale Repubblica
Egregio direttore,
non si può negare che la notizia apparsa domenica 10 marzo sulle pagine del giornale sia di grande interesse, un esempio di come si scrive un articolo essenziale e sapido: Bruno Gambarotta ottiene il finanziamento che attendeva dal Comune per l’archivio nazionale cinematografico della Resistenza grazie a un intervento pronunciato con maestria al Teatro Carignano (Gambarotta chiede e Fassino trova i soldi, La Repubblica Torino, p. II).
Schiocco le dita con disappunto: anche l’Unione Culturale era presente all’iniziativa e sarebbe bastato puntare il palco, impastare un intervento sagace e persuadere la massima autorità cittadina a erogare, lì per lì, il finanziamento ambìto. Così, in effetti, l’Associazione che presiedo eviterebbe che il 2013 sia davvero l’ultimo anno della sua lunga storia.
L’amarezza, che immagino accompagni ogni attività di progettazione culturale, se si tralasciano i salotti affermati e i promotori, bravi e fortunati, di grandi eventi, si trasforma rapidamente in una riflessione, forse pretenziosa ma non egoistica o particolaristica, cioè generale e “politica” nel senso vero della parola. Nessuno crede che Piero Fassino elargisca finanziamenti stando comodamente assiso nelle rosse poltrone dell’aulico teatro sabaudo; né che Gambarotta sia salito sul palcoscenico col cappello in mano davanti al sommo decisore. Sia come sia, c’è un problema non più aggirabile per le istituzioni torinesi e piemontesi, un problema appunto politico: la cultura sta morendo, le istituzioni che negli ultimi decenni sono state attive e spesso innovative sono in via di estinzione, come alcuni marsupiali della terra australe. L’idea di fondo è che ci si deve arrangiare da soli, evidentemente, beccando le briciole che cascano in terra, e temo che dopo almeno tre anni di crisi generale si possa dire che la classe dirigente piemontese non ha fatto nulla per contrastare tale orientamento, in verità un atteggiamento suicida. Sicché chi non aderisce ai princìpi della “Torino pirotecnica” è “fuori”, come il cantante virtuoso incapace d’intonare la Canzone mononota.
Torino e il Piemonte hanno tra le mani una ricchezza enorme, potenzialità che non riescono a esprimersi appunto perché va di moda affermare che la cultura deve autofinanziarsi, ciò che si riduce, scusate, a dire che valgono le solite conoscenze con la società che conta, o nel migliore dei casi quelle doti di marketing che raramente si sposano, per limitarsi a un esempio, con la vocazione artistica. Quando si passi il tempo a formulare progetti, richieste di finanziamento che devono sempre aver presente ciò che possa piacere all’erogatore di fondi, si scava la fossa di ogni originalità.
Se si vuole che continui ad esistere (magari a crescere) un tessuto culturale diffuso, lo si dovrebbe finanziare con fondi pubblici, non smisuratamente né indiscriminatamente, ma in misura sufficiente a garantire l’esistenza di base laddove dietro un’insegna o un nome ci sia un gruppo vero e attivo.
La politica decida quindi una strada diversa: non deve rinunciare a ciò che conta in termini di consenso (comprendo volentieri questa esigenza, anche se, analizzando i recenti dati elettorali, temo che qualcuno stia facendo male i calcoli), ma ipotizzi due percorsi paralleli. Non ci sono soltanto le grandi potenze a Torino e in Piemonte, ma anche un discreto numero di realtà minute e vivaci che intendono rivendicare il loro particolare diritto all’esistenza, ponendo parimenti un problema di prospettiva generale, dell’avvenire della cultura, dell’innovazione e della sperimentazione – e la sperimentazione, di grazia, non richiama migliaia di persone in piazza, ma nasce nel piccolo. E il futuro, aggiungo, si decide oggi.
In relazione al dibattito sulle istituzioni culturali torinesi, che ha trovato ampio spazio sugli organi di stampa, pubblichiamo la seguente dichiarazione di Monica Quirico, Vicepresidente dell’Unione culturale:
La direzione aziendale del “Corriere della Sera” ha annunciato una riduzione dell’organico di 110 giornalisti, su un totale di 355; chissà se Vera Schiavazzi accoglierebbe l’annuncio di un’analoga ristrutturazione del suo quotidiano con la stessa rassegnazione pur “dolorosa” con cui contempla lo scenario della “razionalizzazione” della cultura torinese, dipingendo la “pluralità di voci” come un lusso che non ci possiamo più permettere. Evidentemente la tendenza a far passare per tecniche, ossia ineluttabili e perciò indiscutibili, quelle che in realtà sono scelte prettamente politiche, con l’ausilio di termini che da decenni ormai vengono puntualmente utilizzati per giustificare i licenziamenti, resiste al discredito di cui pure i “tecnici” si sono coperti nell’ultimo anno e mezzo. Al di là dell’aspetto lessicale, l’articolo solleva delle questioni su cui sarebbe ora che le forze politiche – e i poteri finanziari – della città si pronunciassero con chiarezza: questa razionalizzazione che le istituzioni culturali sono ossessivamente invitate a imboccare a quali criteri risponde: di quantità e/o qualità, e definite come? E da chi? Da poteri democraticamente eletti, da “tecnici” o da fondazioni bancarie? E con quale confronto con il mondo intellettuale? Ma soprattutto sarebbe d’aiuto capire se alle istituzioni culturali cittadine si guarda ancora come a soggetti capaci di sollecitare il dibattito pubblico, oppure come a semplici contenitori di un patrimonio storico (sempre meno valorizzato, peraltro, visto che di fondi non se ne trovano), condannandole quindi a una pura funzione testimoniale, di custodi di archivi. Magari riscoprendo, come consiglia uno degli intervistati, le virtù del volontariato [sic].
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