Crisi dell’Europa e neoliberalismo

 

Pubblichiamo il testo integrale dell’intervento di Christian Laval (Université de Paris Ouest Nanterre La Défense) dello scorso 5 giugno all’Unione Culturale, in occasione del terzo seminario italo-francese di teoria critica. Laval è autore insieme a Pierre Dardot de La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista (DeriveApprodi, 2013).

La traduzione è a cura di Davide Gallo Lassere

Introduzione

La costruzione europea è oggi in un vicolo cieco. Risulta in profonda crisi. Le recenti elezioni hanno confermato al Parlamento europeo la maggioranza della destra conservatrice e designato i socialisti come prima forza d’opposizione. Tutte le condizioni sembrano dunque date affinché tutto continui come prima, ossia prosegua lo stesso orientamento di austerity, con le medesime conseguenze sulla crescita e l’impiego che questa politica comporta, specialmente nei paesi dell’Europa del Sud. Da un lato, l’ascesa delle opposizioni di tipo nazionalista e, dall’altro, l’espressione politica della contestazione sociale mostrano però come la costruzione europea cominci seriamente a essere posta in questione. La scelta davanti alla quale ci troviamo è la seguente: ripiego nazionalista o rifondazione europea.

Il crescente nazionalismo xenofobo intende tornare indietro, restaurando le prerogative nazionali in materia di immigrazione, di commercio, di moneta e di budget. Questa prospettiva, che non è impossibile, non è, tuttavia, ineluttabile. Per superarla non vi è che una soluzione: né riformare superficialmente l’uno o l’altro aspetto delle politiche e delle istituzioni, né accontentarsi di forzare un po’ la politica della BCE, bensì trasformare le fondamenta stesse dell’Europa.

La grande questione per gli Europei consiste dunque nell’esaminare come queste fondamenta abbiano condotto all’attuale vicolo cieco. Non voglio dire che le politiche austeritarie attuali non centrino nulla con la crisi economica, sociale e politica. Al contrario, sono decisamente responsabili della catastrofe economica e sociale che molti popoli subiscono. Ma un rilancio di tipo keynesiano che finanzierebbe, per esempio, grandi investimenti facendo leva sulla tassazione delle transazioni finanziari, come proposto in Francia dai movimenti altermondialisti, non rimetterebbe in causa, anche se fosse possibile, gli assetti istituzionali sui quali poggia attualmente l’Unione europea.

Vorrei qui dimostrare che la costruzione europea è stata condotta, fin dall’inizio, secondo una logica molto particolare, a lungo ignorata dal maggior numero di coloro che l’hanno sostenuta o combattuta. La costruzione europea è, fin dall’inizio, orientata secondo un asse dominante. E quest’asse è neoliberale, nel senso in cui Pierre Dardot e io lo intendiamo. Vorrei dunque ricordare rapidamente ciò che abbiamo voluto dire nell’opera che sto presentando nella sua traduzione italiana, La nuova ragione del mondo, per poi evocare la fase di radicalizzazione che ha portato l’Europa nella situazione di crisi in cui oggi si trova.

1. In cosa il neoliberalismo è differente dal liberalismo classico?

Contrariamente a quanto ritenuto dal “senso comune” che ha dominato la critica al neoliberalismo tra gli anni ’90 e 2000, il neoliberalismo non è la semplice ripetizione del liberalismo classico, una versione più moderna del “laissez faire”. Si tratta di un’altra forma politica che è nata durante gli anni ’30 e mirava a rispondere al fallimento del laissez faire, prima e durante la grande crisi. Questo punto è molto importante per comprendere la natura della costruzione europea dopo la Seconda guerra mondiale. Michel Foucault è probabilmente colui che ha meglio interpretato l’originalità di questa forma politica nel suo corso, Nascita della biopolitica, che risale al 1979 ma è stato pubblicato in Francia solamente nel 2003.

Il liberalismo classico si è costituito nel XVIII secolo attorno alla questione dei limiti da imporre all’intervento di governo. L’inizio del XX secolo, però, vede il liberalismo, e in particolare il dogma del laisser faire, entrare in profonda in crisi. Questa crisi raggiunge l’apice negli anni ’30. A quel punto, un po’ ovunque nel mondo occidentale, viene posta la questione di una rifondazione del liberalismo su nuove basi. Il neoliberalismo attuale spicca il volo nel contesto della crisi globale degli anni ’30, al contempo mondiale e totale, nel senso che concerne tutte le sfere, un po’ come oggi del resto.

Si produce così uno strano amalgama, di cui nel libro ricostruiamo la storia, tra coloro che fanno dello Stato il promotore e il guardiano attivo del mercato, al contrario dei sostenitori classici del laisserfaire, e coloro che invece fanno dell’uomo economico una verità antropologica che trascende la mera sfera economica. Per dirlo velocemente, a partire dagli anni ’30, vengono prodotti tutti gli elementi di una nuova razionalità politica e sociale, capace di attribuire allo Stato un ruolo attivo nella costruzione di una società la cui norma generale è la concorrenza tra gli individui e il cui modello d’azione e di organizzazione, anche per lo Stato, diventa l’impresa.

Con il neoliberalismo la questione dei limiti, tipica del liberalismo classico, viene abbandonata: non si tratta più di limitare, ma di estendere. Non si tratta di ridurre il potere del governo tramite il mercato, ma di allargare la logica di mercato tramite il governo. Più precisamente, si tratta di estendere la logica di mercato al di là della sfera ristretta del mercato, riformando a tal fine il funzionamento interno dello Stato, così da trasformarlo nel motore stesso di questa estensione.

Bisogna avere bene chiaro questo nodo cruciale, senza il quale non si può comprendere la logica da cui si sviluppa la costruzione europea. È infatti assolutamente necessario evitare di cedere a una visione cospirazionista dell’attuazione del neoliberalismo: la “nuova ragione del mondo” non si è imposta a partire dalla volontà di uno stato maggiore politico operante a livello mondiale – o, per ciò che ci riguarda, europeo – così come non dipende dall’applicazione di una dottrina predeterminata. La razionalità neoliberale è il risultato della convergenza pratica tra sperimentazioni politiche molto diverse tra loro, condotte da differenti governi negli anni ’80. Tale convergenza è sfociata da un lato nel WashingtonConsensus degli anni ’90, dall’altro nella creazione del grande mercato europeo e della moneta unica. Il neoliberalismo si costruisce così come un insieme di risposte alla crisi generalizzata del potere o, più esattamente, di forme dalle potere degli anni ’60: aumento delle lotte operaie, contestazione del taylorismo e del fordismo, contestazione della famiglia autoritaria e di tutte le forme disciplinari e gerarchiche, comprese quelle sindacali e politiche.

Ecco perché parliamo di “ragione” nel senso di una “razionalità”, ossia di una logica che comanda le pratiche dall’interno, e non nel senso di una motivazione ideologica o intellettuale. Il neoliberalismo non fa dell’adesione a una dottrina una condizione di governo degli uomini, ma mira anzitutto alla costrizione esercitata sugli individui generalizzando situazioni di concorrenzialità.

Questa ragione del “mondo” agisce su scala mondiale e si “fa mondo” nel senso che attraversa tutte le sfere dell’esistenza umana senza ridursi alla sfera propriamente economica. Non è la sfera economica che tende ad assorbire tutte le altre sfere, ma la logica del mercato che si estende a tutte le sfere senza tuttavia distruggerne completamente le differenze.

Questo “effetto globale” del neoliberalismo ha fatto nascere un nuovo capitalismo mondiale, che presenta due aspetti assai noti e strettamente legati tra loro: 1. il dominio delle grandi multinazionali e la loro intima connessione con gli Stati nella definizione delle norme economiche; 2. la finanziarizzazione dell’economia e della società, con un’esplosione del volume dei “capitali fittizi” eccedenti che circolano di continuo e cambiano incessantemente i “supporti” speculativi. Per questo parliamo anche di “cosmo-capitale” e di “cosmo-capitalismo”: per designare l’effetto globale delle politiche neoliberali.

2. L’Europa e il neoliberalismo

Qual è il ruolo rivestito dall’Europa nella nascita e nello sviluppo della razionalità neoliberale e nel dispiegamento del cosmo-capitalismo?

Per un lungo periodo, la doxa dominante in materia europea, di destra come di sinistra, ha difeso l’idea secondo cui la costruzione europea costituisse la sola maniera di opporsi all’“ultra-liberalismo”, proprio perché questa costruzione istituzionale metteva ordine ed elaborava regole e leggi, mentre l’ultra-liberalismo, essenzialmente anglosassone, promuoveva un “capitalismo selvaggio”, completamente sregolato. Insomma, per un lungo periodo la giustificazione politica dell’Europa non è più stata, come agli inizi, la pace civile e l’armonia tra i popoli, ma un modello di capitalismo “civile”, ossia regolato dal diritto e da istituzioni deputate al suo buon funzionamento.

Questa concezione, piuttosto ingenua, ha permesso alla sinistra europea di governo di scegliere il programma europeo in luogo della vecchia prospettiva socialista. Come noto, gli anni ’80 e ’90 hanno segnato una svolta profonda con l’ufficializzazione dell’abbandono della “costruzione del socialismo” da parte di molti partiti europei che si rifacevano a questa ideologia, sostituendola con la “costruzione dell’Europa”. In sintesi, una costruzione ha soppiantato l’altra.

Ma l’idea secondo cui l’Europa rappresenti il solo bastione di cui disponiamo di fronte alla globalizzazione selvaggia e al capitalismo anglosassone è un’idea falsa, fondata sull’ignoranza della storia, invero piuttosto complessa, del neoliberalismo.

Il principio della concorrenza è in effetti al centro del progetto europeo così com’è stato pensato negli anni ’50. A partire dal Trattato di Roma del 1957, il principio e l’obiettivo perseguiti non sono stati altro che “l’economia di mercato, dove la concorrenza è libera”1. Tutta la terza parte, infatti, consacrata alla politica della comunità, definisce con precisione le “regole della concorrenza”. Quest’ultima espressione, utilizzata da allora come un vero e proprio slogan, viene ripetuta a più riprese sia nel Trattato di Maastricht sia nel Trattato costituzionale.

Bisogna qui cogliere un’originalità: la logica del mercato o, se si vuole, della concorrenza, la quale dovrebbe fornire forza propulsiva al capitalismo, diventa un principio costituzionale. Se non ci si è accorti immediatamente di questa dimensione politica e giuridica della concorrenza, è perché essa per anni è stata compensata da politiche pubbliche nazionali ancora potenti in materia industriale e sociale. Non si è subito capito che l’Europa si dava una norma economica suprema, considerata come una componente essenziale della Costituzione politica nel senso più largo del termine. Ci è voluta l’accelerazione della costruzione europea, per tappe, a partire dagli anni ’70 e ’80 (sistema monetario europeo e mercato unico in particolare), affinché la portata costituzionale della norma della concorrenza apparisse con chiarezza.

In effetti, questo principio fondamentale, nella sua duplice dimensione economica e politica, è stato in realtà posto due volte. La prima volta è stato concepito e istituito come un principio direttivo, che non è però divenuto effettivo a causa dell’organizzazione ancora prevalentemente nazionale del capitalismo europeo. La seconda volta, invece, a partire dagli anni ’70 e ’80, ha assunto una portata più pratica, fornendo la linea guida per uscire dal capitalismo fordista attraverso una ricomposizione generale delle economie, delle società e della stessa azione politica. L’Unione europea si è così prefissata come scopo politico la promozione della competitività economica dei paesi membri, organizzando e intensificando –in quasi ogni ambito – la concorrenza tra i paesi che la compongono. Questa concorrenza interna deve servire ad accrescere la competitività esterna dell’Europa. Si tratta dell’applicazione del dogma fondamentale secondo cui la concorrenza, e non la cooperazione, innalza l’efficacia complessiva dell’Europa. In questo senso si può comprendere, per esempio, la politica tedesca degli anni 2000, spesso imputata a un fantomatico “egoismo tedesco”. Questa espressione, dal sapore nazionalista, non riconosce l’essenziale, ossia la semplice applicazione della dottrina neoliberale secondo cui la concorrenza accresce sempre l’efficacia. Si tratta, del resto, di ciò che la signora Merkel non cessa di ripetere ai dirigenti di tutti gli altri paesi: “abbiamo dato l’esempio con riforme strutturali del mercato del lavoro e con l’abbassamento del costo salariale. Ora tocca a voi, Francia e paesi del Sud: dovete seguire il modello che ha funzionato così bene da noi”. Come non vedere la vecchia, classica dottrina secondo cui il perseguimento del proprio interesse particolare permette di realizzare l’interesse generale? Ed è proprio ciò che fanno la destra e la sinistra europea: Hollande ha seguito lo stesso cammino, e apparentemente anche Renzi sta accelerando le riforme del mercato del lavoro e delle istituzioni per accrescere la competitività dell’economia italiana!

All’opera non è nient’altro che la potenza effettiva della costituzione economico-politica che l’Unione europea si è data. Non rimane che chiedersi da dove provenga questo quadro.

3. I fondamenti dottrinali dell’ordine concorrenziale

La “costituzionalizzazione” della concorrenza, in realtà, non è altro che la realizzazione dei principi fondamentali del neoliberalismo e, più precisamente, dell’ordoliberalismo tedesco, così come sono stati definiti tra il 1932 e il 1945. La filiazione tra costruzione europea e neoliberalismo, a lungo occultata dalle forze politiche di destra e di sinistra, era stata sottolineata fin dall’inizio da un certo numero di economisti neoliberali. Il più esplicito e lungimirante fu senza dubbio Jacques Rueff2.

In un apprezzabile articolo del 1958 intitolato “Il mercato istituzionale delle Comunità europee”, Rueff dimostrava come il Trattato di Roma appena firmato creasse un “mercato istituzionale” che andava accuratamente distinto dal “mercato manchesteriano”. Se esso manteneva alcune caratteristiche di equilibrio, configurandosi come “una zona di ‘laisserpasser’”, non prevedeva tuttavia una zona di “laisserfaire”, poiché gli Stati avrebbero dovuto impedire fenomeni di monopolio ed evitare danni sociali. Rueff spiegava come la grande caratteristica del mercato istituzionale sarebbe consistita nel suo “realismo innato”. Abbandonando l’utopia del mercato completamente spontaneo, i fondatori dell’Europa avevano “preferito un mercato limitato da interventi volti a fornirgli la possibilità di essere moralmente accettabile e politicamente accettato”.

Secondo Rueff, questo “mercato istituzionale” – di cui la costruzione europea è il prototipo –avrebbe avuto un grande avvenire. La sua realizzazione avrebbe accomunato i partiti liberali e socialisti, fino a estendersi all’insieme dei rapporti economici mondiali. Ma da dove proviene quest’idea di un mercato costruito e sorvegliato dall’autorità politica? Secondo Rueff, come per altri osservatori dell’epoca, non vi era dubbio: l’idea che animava il “mercato comune” era un prodotto del neoliberalismo apparso alla fine degli anni ’30, nel quale lo stesso Rueff aveva ricoperto un ruolo di rilievo. Tra i neoliberali di quell’epoca, sono però stati i teorici tedeschi dell’ordoliberalismo ad avere la maggiore coerenza dottrinale e il più grande successo, all’interno del proprio Paese come nel resto d’Europa.

Questa dottrina neoliberale incoraggia una politica attiva da parte dello Stato, definita come governo da un insieme regole e volta a un cambiamento strutturale permanente. Gli elementi fondamentali dell’ordoliberalismo, elaborati a partire dagli anni ’30 dagli economisti e dai giuristi tedeschi riuniti attorno a Walter Eucken (il teorico più importante della Scuola di Friburgo), sono i principi della concorrenza e della stabilità monetaria.

Per gli ordoliberali, lo Stato esercita un ruolo attivo e costruttivo nei confronti del mercato e ciò gli permette di acquisire legittimità ed efficacia economica. Secondo l’idea principale, l’attività economica si svolge all’interno di un ordine giuridico-politico specifico che conferisce potere decisionale al consumatore tramite l’estensione della concorrenza. Il punto di vista del consumatore deve prevalere, sempre e comunque. In questo senso, la scelta del consumatore, e il principio complementare della concorrenza libera e non falsata, devono diventare principi costituzionali di ogni Stato di diritto. La concorrenza libera assurge così a scelta politica fondamentale.

La politica neoliberale ha due dimensioni: una ordinatrice, che mira al “quadro”, e una regolatrice, volta al “processo economico”. L’Ordnungspolitik, la “politica ordinatrice”, cerca di creare le condizioni giuridiche di un ordine concorrenziale funzionante sulla base di un sistema di prezzi liberi. L’azione regolatrice del “processo”, invece, deve eliminare tutti gli ostacoli al libero gioco del mercato, tramite un’autentica polizia dei mercati, di cui risulta emblematica la lotta contro i cartelli. La politica congiunturale non è dunque proscritta, posto che obbedisca alla regola suprema della stabilità dei prezzi e del rispetto della loro libera fissazione.

Ludwig Erhardt, uno dei più eminenti responsabili dell’economia tedesca del dopoguerra, ha riassunto molto bene lo spirito della dottrina, affermando che lo Stato è il protettore supremo della concorrenza e della stabilità monetaria, “dirittifondamentalidelcittadino”. Da parte sua, Alfred Müller-Armarck3, che ha diffuso l’espressione “economia sociale di mercato” (Sozial Marktwirtschaft), spiega come l’economia di mercato sia definita “sociale” in quanto obbedisce alle scelte dei consumatori e realizza una democrazia del consumatore facendo pressione sulle imprese e sui salariati al fine di migliorare la qualità e abbassare i prezzi. La concorrenza è “fontediprogressosociale”. Ogni progresso deriva dalla libera competizione: “il benessere di ognuno e il benessere della concorrenza sono sinonimi”.

Ecco il senso genuino della famosa espressione “economia sociale di mercato”. Tutto ciò che aumenta la concorrenza è buono per il progresso sociale. Per questo motivo, la società deve scegliere l’economia di mercato e stabilire tutte le condizioni della concorrenza, qualunque sia il prezzo immediato. Nel suo significato autenticamente ordoliberale, l’“economia sociale di mercato” è un termine antinomico a quelli di Stato Provvidenza o Stato sociale.

4. L’egemonia dell’ordoliberalismo nella RFT

Per comprendere come questi principi siano serviti da fondamento alla costruzione europea senza che tale realtà pervenisse alla coscienza dei suoi cittadini, bisogna risalire al modo in cui essi si sono imposti nella RFT dopo la Seconda guerra mondiale, costituendo la base di un consenso trasversale che accumunò le principali formazioni politiche tedesche. Ovviamente mi manca qui il tempo per ripercorrere questa storia – per la quale vi rimando al libro. Mi limito a sottolineare un paio di situazioni. L. Erhard (1897-1977), meglio conosciuto come “il padre del miracolo tedesco”, è stato il principale architetto del quadro ordoliberale nella RFT. Erhard amaca presentarsi come un economista “pratico”, che rendeva popolari i ragionamenti sofisticati dei teorici, trasformandoli in senso comune. Il suo dogma, esposto chiaramente nel best-seller La prosperità per tutti, recitava: “sostenere l’economia concorrenziale è un dovere sociale”.

Ci vorrebbe anche il tempo per descrivere come si è costruito il consenso ordoliberale in Germania, con l’allineamento della democrazia cristiana nel 1949. La SPD ha fatto la sua conversione ufficiale all’economia di mercato dieci anni dopo, nel 1959, al Congresso di Bad-Godesberg. Il piccolo partito liberale e i Verdi hanno ugualmente partecipato a questo grande consenso, richiedendo qualche piccola revisione. Tutti i partiti di governo si richiamano quindi a questa dottrina a partire dagli anni ’60. Ugual discorso per i sindacati, siccome la potenteDeutscher Gewerkschaftsbund (DGB) dichiara nel 1964 la sua adesione all’economia di mercato. Insomma, in vent’anni l’ordoliberalismo diviene un “credo nazionale”.

Servirebbe ancor più tempo per spiegare come è avvenuta la diffusione dei grandi temi dell’ordoliberalismo in Europa: come gli ordoliberali – i quali, in un primo momento, non erano affatto entusiasti della costruzione europea a causa del dirigismo francese – finirono per pensare in modo molto pragmatico a come i loro principi potessero avere un’estensione regionale, se non continentale. Bisognerebbe esaminare soprattutto il modo in cui, di compromesso in compromesso e di crisi in crisi, avvalendosi della forza e del prestigio dell’economia tedesca, il modello ordoliberale abbia finito per imporsi tra le élites politiche europee, e in particolare in Francia a partire dagli anni ’70.

Così, il neoliberalismo si è costruito e diffuso attraverso la costruzione europea, autentico laboratorio su grande scala dell’ordoliberalismo degli anni ’30. Non si tratta probabilmente di un modello puro, ma l’essenziale è stato attuato: la costituzionalizzazione dell’economia di mercato. Ne vediamo all’opera gli aspetti dottrinali nell’applicazione della politica di concorrenza, nell’indipendenza della Banca centrale europea, in tutti i limiti apportati all’azione budgetaria dei governi (la famosa ratio del deficit e dell’indebitamento) e, ancor di più, nella svalutazione della politica congiunturale a vantaggio della politica delle “riforme strutturali”: quelle della flessibilizzazione dei mercati del lavoro e della “responsabilizzazione individuale” in materia di formazione, risparmio e protezione sociale.

L’Europa, si dice spesso, è stata costruita alle condizioni tedesche. Ma si dovrebbe forse precisare che è stata soprattutto fatta alle condizionidel neoliberalismo tedesco, secondo i principi “dell’economia sociale di mercato”, con l’appoggio dei dirigenti di altri paesi. Ciò che più stupisce, l’ho detto, è come il modello ordoliberale si sia imposto senza che i cittadini abbiano potuto comprenderne le origini, i motivi e le conseguenze. Le stesse élites che lo hanno adottato non sempre sono state coscienti delle sue implicazioni. Bisogna dire che si è prodotto una sorta di inganno, in quanto l’allineamento della sinistra si è operato sulla base di un malinteso, in parte volontario, sul significato dell’espressione “economia sociale di mercato”, interpretata dalla socialdemocrazia in senso “welfarista”, allorché il significato ordoliberale è agli antipodi dello Stato sociale4. Ciò che non era previsto all’inizio, soprattutto dai francesi, favorevoli alle politiche comuni coordinate, è che la concorrenza sarebbe servita da perno per la trasformazione profonda dell’azione pubblica, poiché essa non si limita ad aiutare e sovvenzionare i settori in difficoltà, ma influenza altresì l’insieme dei settori economici, dei servizi pubblici, dei sistemi fiscali e sociali. Ci sarebbero voluti trent’anni per accorgersi che l’integrazione europea attraverso la concorrenza avrebbe seriamente ridotto le scelte possibili e, dunque, limitato o persino svuotato il significato stesso della “democrazia”.

5. Radicalizzazione neoliberale e crisi della democrazia europea

Secondo un processo che può sembrare irrefrenabile, l’Europa allargandosi si radicalizza, a danno delle logiche cooperative e degli investimenti comuni. La logica della concorrenza si estende a tutti gli altri settori, tramite molteplici canali, tra cui, ultimamente, quello dei “lavoratori in trasferta” provenienti dai paesi dell’Est. L’Europa è ormai divenuta uno spazio retto dalla messa in concorrenza dei sistemi istituzionali stessi, che si tratti di fiscalità, protezione sociale, sanità o insegnamento. Il dumping fiscale e il dumping salariale stanno distruggendo i sistemi sociali dei paesi più sviluppati. L’Irlanda ha indicato la via in materia di tasse sulle società, con le calorose raccomandazioni della Commissione. Ma in questa corsa al ribasso fiscale e sociale, anche il governo tedesco di Schröder ha dato l’esempio, a partire dal 1999 (L’“Agenda 2010”). Abbiamo a che fare con un’immensa regressione, e i partiti socialisti o socialdemocratici sono stati tra i fautori più zelanti di questa regressione generalizzata. Il vecchio sogno dei neoliberali come Hayek non pare più impensabile in Europa: la fine dello Stato sociale, la riduzione al minimo dei servizi pubblici fornitori di beni sociali, l’indebolimento o la distruzione del potere sindacale. Radicalizzandosi, l’ordoliberalismo rimette in questione tutto ciò che nel “modello tedesco”, tanto lodato per le sue virtù sociali, “non è conforme” ai principi fondamentali: spese sociali, regolamentazioni del mercato del lavoro, negoziazioni salariali. È giunto il momento di cogliere il significato di questa radicalizzazione e di misurarne le conseguenze. All’inizio, come si è visto, l’ordoliberalismo cercava di inquadrare il mercato tramite le leggi fatte dagli Stati e dalle istanze europee. Adesso il nuovo ordoliberalismo cerca di rendere il mercato stesso il principio della selezione delle leggi fatte dagli Stati. È il mercato a decidere il livello dei salari, della tassazione, delle spesse pubbliche.

Ciononostante, si impongono alcune constatazioni. La radicalizzazione neoliberale degli ultimi anni ha condotto a conseguenze molto gravi per l’Unione europea. Gli squilibri interni tra dinamiche economiche nazionali positive ed evoluzioni negative non cessa di accrescersi. Non sono soltanto l’euro e il suo cambio troppo elevato a creare dei problemi, non è soltanto l’ossessione del rimborso dei debiti illegittimi a esasperare le popolazioni. È il fatto che la stessa base politica dell’Europa ordoliberale sta implodendo. Questa base politica, abbiamo detto, è la “prosperità per tutti”, secondo l’espressione di Erhardt, la conseguenza della sovranità del consumatore. Ma la prosperità non è dietro l’angolo: è il minimo che si possa dire. Si supponeva un accordo generalizzato tra “democrazia del consumatore” ed economia di mercato. Mentre la democrazia, nel senso classico della sovranità popolare, sembra in realtà incompatibile con la costituzionalizzazione dei principi economici neoliberali. Disuguaglianze crescenti, precarizzazione di massa e sentimento di espropriazione politica conducono alla crisi della democrazia nella sua forma liberale classica.

Le recenti elezioni europee hanno dimostrato con chiarezza la diversità delle situazioni nazionali. Ma hanno soprattutto rivelato come l’Unione europea non sia sempre, nel suo funzionamento, un’entità politica democratica, e come si allontani sempre più dalla realtà. La debole partecipazione elettorale in molti paesi e l’ascesa delle opposizioni all’Unione europea ne sono i segni più evidenti.

Si potrebbero trovare incoraggianti le misure o le recenti dichiarazioni di alcuni dirigenti o governi europei che vogliono correggere la rotta europea. Si potrebbe vedere nella introduzione di un salario minimo in Germania un timido inizio di cambiamento. Si potrebbe pensare che le proposte contro l’austerità di Renzi rappresentino una presa di consapevolezza della catastrofe verso cui questa politica ci conduce.

Da parte mia, non ci credo molto. La delineazione del quadro neoliberale europeo, accettato da quasi tutti i partiti di governo, e in quasi tutti i paesi, ha mostrato “virtù” sociali ed economiche considerevoli dal punto di vista degli interessi dei gruppi sociali dominanti. In nome della sacralizzazione delle leggi della concorrenza, molte conquiste dei salariati sono state rimesse in questione, in particolare nell’ambito del diritto del lavoro. L’opera di distruzione del welfare e di ricostruzione di un “ordine concorrenziale” non è terminata. Gli effetti dell’austerità, dal punto di vista dominante, devono andare fino in fondo, la crisi del debito pubblico deve essere prolungata il più a lungo possibile per poter produrre tutti i suoi “benefici”. Solo una grande crisi politica e sociale potrebbe invertire il corso delle cose. I risultati delle ultime elezioni europee, sotto certi rispetti tragiche a causa dell’ascesa delle diverse forme di fascismo che si trovano in Europa, risulta sotto altri riguardi piena di speranza per la nascita di nuove forze politiche progressiste, le quali annunciano, forse, l’ingresso in un nuovo periodo di scomposizione e ricomposizione istituzionale.

1 Il Trattato di Roma del 1957 afferma la necessità di “stabilire un regime in cui la concorrenza nel mercato comune non sia falsata” (I-3). L’articolo 29 precisa che la Commissione segue “l’evoluzione delle condizioni della concorrenza all’interno della Comunità, nella misura in cui questa evoluzione abbia per effetto di accrescere la forza competitiva delle imprese”.

2 Jacques Rueff (1896-1978). Economista anti-keynesiano fin dagli anni ’30, è uno dei neoliberali francesi più influenti del dopoguerra. È stato tra i fondatori della Società Mont Pèlerin nell’aprile del 1947; durante gli anni ’50 ha ricoperto diverse funzioni nelle istituzioni europee.

3 Professore di economia e responsabile al ministero delle finanze. È lui che nel 1946 lancia la formula “economia sociale di mercato” nella sua opera intitolata « Wirtschaftslenkung und Marktwirtschaft» (Economia pianificata ed economia di mercato). Müller-Armarck ha svolto un ruolo importante nella negoziazione del Trattato di Roma.

4 Jacque Delors, che fu presidente della Commissione europea dal 1985 al 1994 e ministro dell’economia di Mitterand, ha una grossa responsabilità in questa dissimulazione.

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