Nel corso degli ultimi anni la parola “precarietà” è stata da più parti abbinata a una condizione di impotenza, collettiva e – prima ancora – individuale. Un’associazione, questa, talmente condivisa da somigliare a un facile pretesto per continuare ad alimentare l’illusione che la lotta quotidiana per la propria sopravvivenza possa sortire esiti migliori di ogni tentativo di riscossa collettiva. Difficilmente questa convinzione può essere scalfita dalle parole di chi, facendo della militanza una professione, inneggia alla rivolta organizzata. Diverso esito potrebbe sortire invece il confronto con l’esperienza di chi ha tentato di cambiare le proprie sorti biografiche a partire dal contesto di vita frequentato ogni giorno: il lavoro.
Ne è un esempio la lotta ingaggiata (e vinta) dagli operai della INNSE nel 2009. Quattro di loro occuparono un carroponte a venti metri d’altezza all’interno del capannone della INNSE, per fermare lo smantellamento dei macchinari e impedire la chiusura dell’ultima fabbrica ancora attiva nel comune di Milano. Sarebbe troppo facile proiettare su chi ha scommesso di combattere insieme ai propri colleghi di lavoro il ruolo di eroico protagonista di uno spettacolo a lieto fine. Anche la loro, come ogni lotta, era condannata agli esiti incerti di rapporti di forza troppo asimmetrici per prevedere una vittoria. A differenza di quelle degli ultimi anni, la loro lotta dimostra la concreta possibilità di una liberazione e smentisce un’universale presunzione d’impotenza.
Per queste ragioni l’Unione Culturale Franco Antonicelli, in occasione della prossima edizione di Precarissima e in collaborazione con le Officine Corsare, ha scelto di dedicare all’interrogativo “La lotta rende liberi?” una delle dieci serate del Progetto Liberazioni.
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