L’11 giugno 2020 l’Uc ha compiuto 75 anni. Da aprile 2020 e fino ad allora, in pieno lockdown, abbiamo proposto regolarmente letture, idee, immagini legate alla nostra storia o “in sintonia con il presente”, come avrebbe scritto Franco Antonicelli. Abbiamo scelto di chiamare questa serie di contributi Letture tendenziose in omaggio al titolo di un suo celebre discorso pronunciato a Livorno il 15 ottobre 1967 per l’inaugurazione della Biblioteca dei Portuali.
Una “lettura tendenziosa” dedicata al cinema inteso come sala, luogo pubblico in cui si confondono verità e illusione, reale e immaginario. Il cinema ci manca in queste settimane di visioni casalinghe e con gioia attendiamo la riapertura delle sale anche se non sappiamo che ne sarà della rêverie e del desiderio in questo “mondo nuovo” de-umanizzato da distanze sociali, mascherine sanitarie e gel idroalcolici. Il testo è tratto dal saggio Uscendo dal cinema (1975) di Roland Barthes. Barthes venne invitato in Uc il 7 giugno 1966 da Edoardo Sanguineti per inaugurare il ciclo di conferenze “Letteratura e società”. Il 18 maggio 2020 cade il 10° anniversario della scomparsa di Sanguineti, a lungo animatore dell’Uc, e questo nostro omaggio va anche a lui.
Uscendo dal cinema un videosaggio dell’Unione culturale Franco Antonicelli per la serie Letture tendenziose / Immagini da La chatte à deux têtes (2002) di Jacques Nolot / Montaggio e regia: Carlotta Del Giudice / Testo: adattamento di Uscendo dal cinema (1975) di Roland Barthes / Voce: Silvia Nugara.
Uscendo dal cinema
di Roland Barthes (versione modificata per la lettura)
Chi vi parla qui deve riconoscere una cosa: ama uscire da una sala cinematografica. Ritrovandosi nella strada illuminata, quasi deserta, e dirigendosi mollemente verso qualche caffè, cammina in silenzio (non ama parlare subito dopo il film che ha appena visto), è un po’ intorpidito, goffo, infreddolito — insomma, assonnato: ha sonno, ecco che cosa pensa; nel suo corpo si è diffuso un senso di sopore, di dolcezza, di calma: languido come un gatto addormentato, si sente un po’ disarticolato, o meglio irresponsabile.
In breve, è evidente, esce da uno stato di ipnosi. E dell’ipnosi ciò che percepisce è il più antico dei poteri: quello di guarire. Pensa allora alla musica: non ci sono forse delle musiche ipnotiche? Il castrato Farinelli lenì la malinconia morbosa di Filippo V di Spagna cantandogli la stessa romanza ogni sera per quattordici anni.
Dal cinema si esce spesso proprio così.
Come vi si entra? Fatta eccezione per il caso di una ricerca culturale ben precisa, si va al cinema approfittando di un momento di ozio, di disponibilità, di vacanza. Tutto si svolge come se, ancora prima di entrare nella sala, si sommassero le condizioni classiche dell’ipnosi: vuoto, ozio, disimpegno; non è davanti al film, o a causa del film che si sogna; inconsapevolmente, si sogna ancor prima di diventare spettatori. C’è una “situazione da cinema”, e tale situazione è pre-ipnotica. Il nero della sala è prefigurato dalla “rêverie crepuscolare” che precede il nero e conduce il soggetto, di strada in strada, di manifesto in manifesto, a inabissarsi infine in un cubo scuro, anonimo, indifferente, dove deve prodursi quel festival di affetti che viene chiamato film.
Che cosa vuol dire il “nero” del cinema (non posso mai, parlando di cinema, impedirmi di pensare “sala”, più che “film”)? Il nero non è solo la sostanza stessa della rêverie; è anche il colore di un erotismo diffuso; grazie alla sua condensazione umana, alla sua assenza di mondanità, all’affossamento delle posizioni, la sala cinematografica è un luogo di disponibilità, ed è la disponibilità, l’ozio dei corpi, a definire meglio l’erotismo moderno, non quello della pubblicità, o degli strip-tease, ma quello della grande città. È in questo nero urbano che si esercita la libertà del corpo; quel lavorio invisibile degli affetti possibili trae origine da quello che si può considerare un vero e proprio bozzolo cinematografico; lo spettatore di cinema potrebbe fare suo il motto del baco da seta: è perché sono rinchiuso che lavoro e risplendo di tutto il mio desiderio.
In questo nero del cinema (nero anonimo, popolato, numeroso: oh, la noia, la frustrazione delle proiezioni cosiddette private!), risiede il fascino stesso del film (qualunque esso sia). Ricordate l’esperienza opposta: alla televisione, che proietta anch’essa dei film, quel fascino ipnotico è del tutto assente; il nero è cancellato, l’anonimato rimosso; lo spazio è familiare, articolato (dai mobili, dagli oggetti ben noti), addomesticato: l’erotizzazione del luogo è preclusa. Dalla televisione siamo condannati alla Famiglia, di cui essa è divenuta lo strumento domestico, come un tempo il focolare, con la sua grande pentola comune.
Nel cubo opaco della sala, una luce: il film, lo schermo? Sì, certamente. Ma anche (ma soprattutto?), visibile e inosservato, quel cono danzante che perfora il nero, come un raggio laser. Tale raggio si converte, secondo la rotazione delle sue particelle, in figure cangianti; giriamo il volto verso il contro-valore di una vibrazione brillante, il cui getto imperioso rasenta la nostra testa, sfiora, di spalle, di sbieco, una capigliatura, un volto. Come nei vecchi esperimenti di ipnotismo, siamo affascinati, senza vederlo in faccia, da questo spazio brillante, immobile e danzante.
Tutto accade come se un lungo stelo di luce delineasse i contorni di una serratura, e tutti noi, attoniti, guardassimo attraverso il buco. Che cosa? L’intontimento filmico, l’ipnosi cinematografica richiede che io sia nella storia, ma anche che io sia altrove, nella situazione in cui vado a cercarlo.
L’immagine filmica (compreso il suono) che cos’è? Un’illusione. tiene vivo nel soggetto che io credo di essere l’equivoco legato all’Io e all’Immaginario. Nella sala cinematografica, per quanto io sia seduto lontano, incollo il naso, fino a schiacciarlo, allo specchio dello schermo, a quell’“altro” immaginario nel quale mi identifico narcisisticamente (si dice che gli spettatori che scelgono di mettersi il più vicino possibile allo schermo sono i bambini e i cinefili); l’immagine mi cattura, mi rapisce: mi incollo alla rappresentazione; ed è questa colla a fondare la naturalità (la pseudo-natura) della scena filmata.
Il Reale conosce solo distanze, il Simbolico maschere; solamente l’Immagine (l’Immaginario) è vicina, solamente l’immagine può produrre l’eco della verità ma la “verità” è un’illusione.
Come scrollarsi dallo specchio? Tentiamo una risposta che sarà un gioco di parole: “decollando”: lasciandosi affascinare due volte, dall’immagine e dai suoi contorni, come se avessimo due corpi nello stesso tempo: un corpo narcisistico che guarda, perduto nello specchio vicino, e un corpo perverso, pronto a feticizzare non l’immagine, ma per l’appunto ciò che la eccede: la grana del suono, la sala, il nero, la massa oscura degli altri corpi, i raggi della luce, l’entrata, l’uscita; in breve, per straniarmi, per “decollare”, complico una “relazione” con una “situazione”.
Ciò di cui mi servo per prendere le distanze dall’immagine, ecco, in fin dei conti, ciò che mi affascina: sono ipnotizzato da una distanza; e tale distanza non è critica (intellettuale); è, per così dire, una distanza amorosa.
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