Quando siamo in crisi, quando ripetiamo a noi stessi e al mondo che non può più andare avanti così, di solito chiediamo soccorso a chi si presume saperla più lunga su come ci si tira fuori dai guai. Per evitare di lasciarci la faccia o la pelle, siamo pronti a concedere un potere, infimo o immenso, a qualche specialista della salvezza. Il governo degli esperti è infatti la classica e meno fantasiosa delle ricette per affrontare una crisi. Quella applicata da qualche secolo anche nella terra di mezzo tra politica e cultura dove prosperano intellettuali, passionari e radicali liberi di varia estrazione.
La preliminare mossa salvifica (“Monsieur de Saint-Simon, I presume?”), ritenuta congrua alla serietà della situazione, consiste di norma nel fare piazza pulita di quella gentaglia inutile che ozia e fantastica, mentre il mondo cade a pezzi o langue al fondo di una stagnazione dell’anima o del capitale. Lasciando campo libero a ingegneri, economisti, scienziati, imprenditori e filosofi analitici. A dei tecnici, insomma. Figuri grigi e prevedibili come la morte, ma affidabili come nessun altro. Quelli a cui ogni buon padre di famiglia consegnerebbe la propria bambina, con la certezza di vederla tornare a casa incolume e trista prima di mezzanotte.
Considerato il fallimento integrale di tutti i governi tecnici degli ultimi secoli e non avendo bambine da consegnare alla rassicurante depressione di signori in loden, mi è parso sensato affidare per una notte di liberazioni l’Unione Culturale non a degli esperti, ma alla categoria di individui che praticano la più libera delle occupazioni: i poeti. Tutti quelli che conosco, per esperienza diretta o sentito dire, sono infatti accomunati da un tratto caratteriale e da una linea di condotta su cui ripongo le mie scarse speranze di non morire di neoliberismo o di noia nel tempo che mi resta da vivere. I poeti sono infatti dei doppiogiochisti perfetti, dei maghi senza rivali del travestimento rivoluzionario. Individui all’apparenza estranei al mondo, in realtà perfettamente scissi – spesso ben oltre la thin red line della schizofrenia – che stanno in mezzo a noi come agenti segreti, come kamikaze dormienti di una cospirazione libertaria.
Mostrano e infliggono al mondo, con dissuasive opere di facciata (professori, saggisti, intellettuali, editori, cuochi, camerieri, bohémiens sempre fuori tempo massimo), la loro completa inutilità: l’arido tedio di una sapienza dotta, l’oceano logorroico di blog letterari e video artistici, la messe di implacabili e paranoici programmi d’azione. Poi, quando nessuno li vede, si cavano di faccia quella maschera di irrilevante seriosità. E colano in versi l’incandescenza di un sentire, di un patire e di uno sperare con cui si potrebbero liberare dalla crisi non uno, ma cento mondi come quelli che ci sono toccati in sorte. Non diversamente da quanto farebbe ciascuno di noi. Se avesse il coraggio, la fortuna e la sfrontatezza per innescare il materiale esplosivo che i poeti riversano clandestinamente all’esterno. Questa dinamite homemade, capace di far esplodere milioni di solitudini, milioni di crisi più o meno camuffate, milioni di inverni che paiono senza fine, verrà stoccata e fatta brillare il primo giorno di primavera del 2015 nel bunker dell’Unione Culturale.
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