La scuola dopo la pandemia (gruppo scuola e digitale dell’Uc)

Immagine gruppo scuola digitale
Fotocollage di immagini tratte da http://mrsoconnellsartroom.blogspot.com/ e ispirate dalle opere di Martin O’Neill.

Da novembre 2020, l’Unione culturale riunisce virtualmente un gruppo di studio e autoformazione sul digitale nella scuola e nelle università come fenomeno del presente, ma in continuità con politiche decennali. L’iniziativa è informale e nasce come occasione d’inchiesta e come forma di resistenza critica e sopravvivenza in tempi di DAD. Le piste di ricerca di di discussione che il gruppo percorre riguardano:

-una storia del digitale nella scuola pubblica;
-il digitale nei regolamenti scolastici attuali;
-come si legifera la didattica a distanza nelle scuole cfr. La deriva digitale. Per una critica della legislazione sulla didattica a distanza
-studio delle piattaforme digitali;
-raccolta di esperienze creative che, sebbene a distanza, hanno evitato l’omologazione: la radio, la classe rovesciata, la scuola all’aperto.

Gli incontri di autoformazione proseguono, se ti interessa saperne di più o partecipare scrivici a unioneculturale@gmail.com

La scuola dopo la pandemia

 Il presente testo è una sintesi del lavoro di inchiesta e di alcune delle piste di riflessione emerse nel “gruppo scuola digitale” dell’Unione culturale che si riunisce dal novembre 2020 per scambiare esperienze e riflessioni sul rapporto tra scuola e democrazia oggi. Per informazioni: unioneculturale@gmail.com

 

 Se potesse dare un consiglio alla classe docente di oggi, cosa indicherebbe?

Cominciare a combattere apertamente tutto ciò che in cuor loro riconoscono come offensivo, inutile, frustrante, senza avere il coraggio di dirlo. Non compilare le scartoffie superflue, non andare alle riunioni che fanno perdere tempo, togliere il saluto a chi parla di meritocrazia, isolare nel disprezzo i dirigenti scolastici che si prestano alla distruzione della scuola e all’umiliazione degli insegnanti; e queste cose dirle e spiegarle ai ragazzi e alle loro famiglie. È una battaglia e le battaglie si rischia di perderle, ma quando è il momento bisogna comunque combatterle – o arrendersi. (intervista ad Alessandro Barbero, “L’insegnamento è il più frustrante dei mestieri moderni” https://www.oggiscuola.com/, 31 dicembre 2019)

 

 

Didattica digitale integrata: una nuova governance che riconfigura gli spazi

 Alla fine di maggio 2020, L’ANP (Associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola, già Associazione Nazionale Presidi) ovvero l’organo più rappresentativo dei dirigenti scolastici pubblicava delle “proposte per la riapertura delle scuole”. Più che una sintesi di operazioni concrete, il testo è un manifesto programmatico: “L’esperienza della didattica a distanza (DAD) e dello smart working […] ha posto ogni scuola davanti alla consapevolezza che gli strumenti digitali sono ormai diventati indispensabili supporti formativi e di organizzazione”. Interessante, questo riferimento alla duplice missione educativa e organizzativa del digitale legittimata da una retorica del servizio e del beneficio all’utenza: “L’e-government della scuola, ossia l’applicazione concreta delle più moderne tecnologie per sostenere il lavoro dei docenti, per migliorare l’apprendimento da parte degli studenti e per gestire gli aspetti amministrativi dell’organizzazione scolastica, è ormai un’esigenza primaria, in linea con i processi di profonda trasformazione che tutti gli enti pubblici stanno affrontando per servire i cittadini e le imprese nel miglior modo possibile, anche quando arriverà l’auspicata conclusione dell’emergenza Covid-19”. La pandemia è l’occasione per istituire una nuova governance fondata sul digitale e capace di amministrare tutte le relazioni interne alla scuola. Il digitale promette un tempo dove i conflitti, e dunque il dibattito e il confronto, sono rarefatti e indeboliti: “Per fare tutto questo, è necessario ‘liberare’ il ruolo dirigenziale da vincoli e costrizioni che nulla hanno a che fare con il principio costituzionale del buon andamento ma che favoriscono, al contrario, conflittualità deleterie per il clima relazionale e, in definitiva, per la funzionalità del sistema”.

La congiunzione tra educazione e amministrazione era già presente nel Piano Nazionale Scuola Digitale, una costola della legge del 2015 chiamata Buona Scuola. È in quel medesimo testo che si ritrova una delle prime occorrenze di un’espressione divenuta comune in pandemia: “didattica digitale integrata” (DDI). A pagina 43 del Piano si trova il capitolo Ambienti per la didattica digitale integrata. Sin dall’introduzione si rimarca la stretta relazione tra il digitale e lo spazio scolastico, o “ambiente”: l’educazione digitale è “prima di tutto un’azione culturale, che parte da un’idea rinnovata di scuola, intesa come spazio aperto per l’apprendimento e non unicamente luogo fisico, e come piattaforma che metta gli studenti nelle condizioni di sviluppare le competenze per la vita”. L’accenno alle “competenze” è un chiaro indicatore ideologico. Fondamentale, però, è la riflessione sullo spazio: la scuola digitale non è un luogo fisico, ma un ambiente interconnesso che può realizzarsi ovunque, in aula o in uno spazio privato o informale come la camera da letto dello studente. L’epidemia era un evento probabile ma forse non così prevedibile mentre le condizioni di possibilità per una scuola virtuale già esistevano.

Il piano del 2015 per la scuola digitale auspica che prendano vita “aule, spazi, aumentati dalla tecnologia, in cui avviene la separazione del concetto di classe da quello di aula”. In questi nuovi ambienti didattici l’attività deve essere “trasversale, specialistica, ‘ibrida’”. Sono ormai sorpassate le “visioni organizzative legate alla rigidità e alla chiusura degli spazi”. Il digitale istituisce pertanto una rivoluzione nello spazio educativo: all’aula, luogo di una disciplina esercitata dall’occhio che scruta dalla cattedra, si sostituisce un ambiente didattico ubiquo, aumentato e flessibile, dove la connessione trasforma in scuola ogni potenziale angolo del mondo purché amministrato dalla piattaforma digitale.

 

Piattaforme e appiattimento delle forme

 L’uso della piattaforma può limitarsi a un livello minimo, quello delle videoconferenze, ma può espandersi a un livello più articolato, con l’uso delle classi virtuali. Sembra che già prima diversi insegnanti le usassero. È comunque indubbio che la diffusione delle classi virtuali abbia avuto un notevole incremento nei mesi di scuola a distanza. Alcuni hanno apprezzato strumenti come Classroom perché consentono di inviare e ricevere i materiali in un unico “luogo virtuale”, senza dover scaricare centinaia di mail o ricorrere a un altro mezzo per inviare documenti. Si possono inventare modi nuovi per comporre testi e “somministrare” verifiche. In sostanza la piattaforma può essere usata come una “scatola vuota”: i docenti e gli studenti, se la trovano utile, la riempiono di contenuti. Ma la scatola vuota ha formati precisi – il mezzo è il messaggio – e ci si potrebbe chiedere chi, quando e con quale legittimità ha “inventato” e fatto applicare questi specifici format, che plasmano i modi della comunicazione e della valutazione riconfigurandoli nelle modalità della rete. Non c’è bisogno di rileggere Foucault per intuirne la natura di dispositivi di disciplinamento. 

La frenesia con cui la prima fase si è svolta ha di fatto impedito ogni riflessione sulle piattaforme più idonee, ha eluso ogni precauzione sulle questioni di privacy e su chi si sarebbe mangiato tutti i dati che stavamo producendo a raffica. L’importante era agganciarsi alla rete, con sullo sfondo i big data, la lontana IA di cui non si conosce molto, ma di cui non era tempo di preoccuparsi.

Eppure, il nodo era evidente: nove milioni di nuove connessioni quotidiane prolungate, otto milioni di bambini e adolescenti che forniscono continuamente dati sulla loro vita quotidiana, i loro immaginari, saperi, creazioni, linguaggi, salute, gusti e preferenze, abitudini, percorsi, attraverso i loro scritti, disegni, esercizi, video condivisi in piattaforma, che possono essere incrociati con i dati provenienti dal cellulare e dai social. Circa un milione di insegnanti che producono testi, lezioni videoregistrate, verifiche, esercizi e presentazioni in PowerPoint, oltre a tutta la documentazione amministrativa e alla comunicazione istituzionale attraverso le e-mail e le chat, anche questi incrociati con i cellulari e i social.

Da quanto si può intuire da alcune notizie poco divulgate dalla stampa nazionale, la scuola italiana si trova a sua insaputa sul terreno di scontro per il dominio tecnologico. Il 29 luglio 2020 il Congresso americano ha convocato in una lunga e contrastata audizione i vertici di Google, Amazon, Apple e Facebook per contestare loro le pratiche monopolistiche nella gestione della rete: significa che questi giganti adottano ogni mezzo per escludere o inglobare i soggetti più piccoli e consolidare il loro monopolio, frutto peraltro di un gigantesco e rapido processo di concentrazione avvenuto negli scorsi anni. La guerra per la connessione tra gli account va avanti senza esclusione di colpi (una ricaduta è ad esempio la concessione di sconti e servizi solo a chi passa per uno specifico account) e la scuola, non solo italiana ma di tutto il mondo, è un boccone particolarmente appetibile. Ma il processo di espansione del potere dei padroni del web, indipendente da ogni sovranità nazionale e da ogni controllo democratico, che ha come fulcro l’acquisizione e il controllo dei dati, va oltre il mondo della scuola e coinvolge più ampiamente la vita di tutte/i le/i cittadine/i. La rilevanza della questione si coglie bene considerando che dal 2016 la UE ha puntato al rafforzamento delle proprie politiche di protezione dei dati, sia con il Regolamento UE 2016/679 sia con la successiva costituzione, nel 2018, di un Comitato Europeo per la Protezione dei Dati che rafforza la vigilanza e i poteri del Garante.

Per quanto riguarda specificamente la scuola italiana, a più riprese si è espresso il Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro (in carica fino al 29 luglio 2020), il quale già con un provvedimento del 26 marzo 2020 sottolineava l’opportunità di svolgere la didattica a distanza attraverso il registro elettronico, in quanto in tale caso il fornitore è responsabile per contratto del trattamento dei dati secondo il Regolamento UE, e consigliava di limitare l’uso delle piattaforme generaliste ai soli servizi strettamente necessari alla formazione.

 

La didattica asincrona: misura emergenziale o riforma scolastica?

 Già a settembre 2020 le scuole sono state impegnate a definire concretamente le modalità specifiche della DDI. Il MIUR ha infatti escogitato una procedura quantomeno curiosa: l’approvazione da parte dei Collegi Docenti di un Piano e di un Regolamento per la DDI. Tale nuova normativa, inserita nei PTOF, ha come base le Linee Guida del Ministero, emanate in applicazione del Documento per la pianificazione delle attività scolastiche, educative e formative in tutte le Istituzioni del Sistema nazionale di Istruzione per l’anno scolastico 2020-21.

La traduzione in burocratese scolastico di queste Linee Guida è stata per molte scuole mediata da un modello di Regolamento, redatto all’uopo e scaricabile dal sito di Orizzonte Scuola. In altri termini, in una situazione di emergenza e di incertezza, con le classi in presenza, l’incubo dei contagi e l’ansia della prevenzione, è stato chiesto al corpo docente italiano di rendersi autore di una sorta di riforma scolastica, non approvata in Parlamento né promulgata con apposita legge, che punta a introdurre modifiche sostanziali nei metodi didattici, nei tempi e nelle condizioni di lavoro. Infatti sia le Linee Guida del MIUR sia soprattutto il modello di Orizzonte Scuola sovrappongono ambiguamente la situazione di emergenza e la didattica ordinaria per spingere sul fronte della didattica digitale attraverso la cosiddetta “didattica asincrona”, che significa un apprendimento non in presenza per il quale l’insegnante predispone materiali, ovviamente online. In secondo luogo, la nuova normativa sdogana l’uso delle piattaforme nell’insegnamento non solo emergenziale, ma ordinario. Google Suite e Meet sono di fatto ora riconosciuti come componenti dell’istituzione scolastica.

L’approvazione di questi Piani, e i cambiamenti che prefigurano, non ha dato luogo ad alcun dibattito pubblico, neppure sul fronte sindacale. Tuttavia in alcune scuole i docenti hanno prodotto Piani e Regolamenti in cui si riconosce la difesa di pur minime regole istituzionali e costituzionali che inquadrano la professione docente, ribadendo che la DDI riguarda una situazione emergenziale contingente, una necessità obtorto collo, e dunque la sua regolamentazione è a scadenza, che la scelta delle metodologie didattiche – digitali o “tradizionali”, in presenza o a distanza – rimane prerogativa indiscussa dei docenti e che la modificazione delle condizioni di lavoro deve essere discussa e approvata in sede di contrattazione sindacale (nazionale e di istituto).

Il nodo è infatti “l’integrazione del digitale” nella didattica, che non significa semplicemente usare le consuete tecnologie informatiche, dal registro elettronico alle e-mail, dai documenti word ai powerpoint e ai video, ma fare lezione navigando in rete, con gli strumenti, i linguaggi e i format della rete, “in presenza e, se necessario, a distanza”, come scriveva DeAScuola in un messaggio dal tono perentorio inviato a diversi docenti a settembre 2020: “le tecnologie digitali rappresentano oggi una componente strutturale fondamentale della didattica: è necessario pertanto orientare la scuola all’integrazione del digitale nelle sue proposte, in presenza e, se necessario, a distanza”. Benché sia evidente che DeAScuola parla pro domo sua, dice esplicitamente che è inutile arrampicarsi sui vetri per distinguere tra didattica sincrona e asincrona, in presenza o a distanza, perché questa nuova onda tecnologica sta sfondando le mura dell’aula, finora rimasta uno spazio inviolato di sovranità docente, per riformattare i contenuti delle discipline e la comunicazione con gli studenti facendoli passare attraverso la rete.

Si tratta allora di capire come e con quali strumenti la nuova normatività, fondata sull’obbligo di connessione, possa affermarsi in tutta la sua potenza di innovazione, quali sono le sue precise modalità applicative. E allora perché presentare la DDI come qualcosa a cui i docenti devono accedere o addirittura imparare da altri, da esperti (che dove si saranno formati a loro volta)? Tuttavia, è proprio questa forma fantasmatica di didattica digitale che plasma l’immaginario della scuola del futuro.

  

Le ricadute sull’edilizia pubblica

 La ridefinizione dello spazio prefigurata dalla legislazione sulla didattica digitale influenza anche il concetto di edilizia pubblica: “Occorre – si scrive nel piano della scuola digitale del 2015 – che l’idea di spazi, a partire dagli interventi a favore dell’edilizia scolastica, e includendo una riconfigurazione funzionale degli ambienti per l’apprendimento, vadano nella direzione di una visione sostenibile, collaborativa e aperta di scuola”. Fioriscono nella lingua ministeriale espressioni come “flessibilità delle configurazioni”, sogni che richiamano a una “visione” che sia “leggera, sia fisicamente che economicamente”. Ecco un esempio di leggerezza digitale applicata agli spazi pubblici: i genitori di un’allieva di scuola media con un arto infortunato hanno recentemente chiesto che la figlia possa seguire le lezioni a distanza. La dirigenza ha accolto la proposta. Finalmente non sarà più all’ordine del giorno l’aggiornamento strutturale dell’edificio per un adeguato superamento delle barriere architettoniche. Si modifica il senso di spazio per ridurre la responsabilità dei dirigenti e diminuire la spesa nell’edilizia pubblica: è questa la leggerezza economica promessa dal digitale?

Nell’ultimo anno la DAD è stata anche giustificata in causa delle carenze dei trasporti pubblici e dell’insufficienza degli spazi scolastici, che da alcuni anni sono passati dalla competenza della Provincia a quella della Città metropolitana: ne è derivato che le scuole non vengono più inserite nel disegno di chi progetta la città e i piani regolatori (vale a dire gli assessori comunali) e che è diventato ancora più complicato ottenere interventi di manutenzione e ammodernamento per l’edilizia scolastica. Così, si è già perso e si perderà molto del riconoscimento che istituti e poli scolastici dovrebbero avere come presidi culturali e sociali sul territorio delle nostre città.

L’idea di una città smart attraversata da infrastrutture digitali che governano molta parte della vita urbana è un orizzonte prospettato già prima della pandemia e coerente con l’immagine della scuola digitale i cui muri saltano e che si estende fino alle case delle persone o persino agli angoli di strada se dotati di buona connessione. Questa destrutturazione dello spazio scolastico, nella sua spazialità diffusa e in connessione permanente, si sta affermando come una visione sociale sempre più mainstream consegnando le vite delle giovani generazioni (e non solo) a una dimensione di solitudine, per quanto iperconnessa. Tuttavia, si tratta ancora di uno scenario non del tutto realizzabile per problemi di natura tecnica e per una certa resistenza sociale rappresentata anche da molti cittadini e cittadine. Per il futuro della città, come per quello della scuola o del lavoro presentati da una certa ideologia come smart, si può quindi prevedere una stagione non solo consensuale ma anche conflittuale tra idee differenti di società, più e meno democratiche, una stagione da affrontare con spirito critico e maggiore cognizione possibile.

No Replies to "La scuola dopo la pandemia (gruppo scuola e digitale dell'Uc)"

    Leave a reply

    Your email address will not be published.